Tempo tuta a lavoro: la battaglia per la sua retribuzione
Il tempo tuta, sebbene mancante di una disciplina normativa, più volte è stato oggetto di esame giurisprudenziale. Il D.Lgs. 66/2003 fa riferimento a “qualsiasi periodo in cui il lavoratore sia al lavoro, a disposizione del datore di lavoro e nell’esercizio della sua attività o delle sue funzioni”. Di recente la contrattazione collettiva ha tentato di disciplinare il fenomeno.
Molti sono i dettagli a cui si deve far riferimento per comprendere se ci troviamo di fronte ad un tempo giuridicamente ed economicamente riferito alla vestizione/svestizione del lavoratore.
Secondo un consolidato ordinamento di legittimità (fra tutte Cass., 15763 del 07 giugno 2021) nonché di merito, il tempo impiegato per indossare l’abbigliamento di servizio può rientrare nel concetto di orario di lavoro solo se oggetto di eterodirezione, cardine del rapporto di lavoro subordinato. Diversamente, quando l’azienda non ritiene necessario che la vestizione avvenga all’interno di locali aziendali ovvero vi sia libertà, da parte dei collaboratori, in relazione al quando e dove indossare indumenti lavorativi, verrebbe a mancare quel controllo e direzione che qualificano il tempo impiegato per cambiarsi come orario di lavoro.
Ovviamente quanto sopra riferito deve considerare altresì:
- La possibilità di poter portare presso il proprio domicilio gli indumenti in discussione. Trattasi di casi nei quali al lavoratore vengono consegnati degli abiti che, con ogni forma di probabilità, non possono essere qualificati né come dispositivi di prevenzione individuale (i quali devono essere conservati in azienda, nel rispetto delle previsioni di cui agli articoli 74 e seguenti del d.lgs. 81/2008) né assumono rilievo ai fini dell’igiene e sicurezza negli ambienti di lavoro (in quanto, ad esempio, devono essere sterili e non contaminati);
- La disponibilità di tali abiti. Anche in questo caso, la disponibilità degli indumenti giocherà un fattore nel riconoscimento della rilevanza giuridica degli stessi. Ad esempio, nel caso in cui gli indumenti fossero disponibili solo in azienda, appare evidente come il tempo per indossarli (se la policy azienda impone quel vestiario a lavoro) possa rientrare nell’alveo di quella funzionalità lavorativa che lo qualificherà come retribuito;
In effetti, benchè l’obbligo di vestizione in azienda (o prima dell’accesso al lavoro) abbia come corollario l’eterodirezione (e con essa il concetto di orario di lavoro), in alcuni settori il c.d. “tempo tuta” risulta naturalmente funzionale allo svolgimento dell’attività lavorativa in quanto rispondente ad obblighi di igiene pubblica che, come tali, attraggono la (s)vestizione alla mansione.
In tal senso il Tribunale di Bari, con ordinanza n. 2656 del 04.10.2021 ha rilevato l’esistenza del “tempo tuta” prescindendo da una valutazione sull’esistenza dell’eterodirezione ma evidenziando come, qualora vi siano necessità di igiene e sicurezza riguardanti il servizio pubblico svolto e/o l’incolumità del personale addetto, il tempo per la vestizione debba essere considerato naturalmente orario di lavoro.
Tratti distintivi del tempo tuta
Pertanto, la sussistenza o meno dell’orario di lavoro per cambiarsi (prima dell’inizio del lavoro effettivo) deve considerare:
- non solo la scelta del datore di lavoro di voler governare il fenomeno (ovvero di imporre che la vestizione avvenga in specifici locali o, alternativamente, la volontà di lasciare liberi i lavoratori da vincoli)
- ma anche se consentire una libera vestizione sia possibile, soprattutto in quelle mansioni e/o ruoli nei quali l’incolumità dei lavoratori e/o le specificità del settore di riferimento (pensiamo agli infermieri) lo consentano;
Anche il Ministero del Lavoro, con risposta all’interpello n°1 del 2020, ha condiviso l’impostazione di cui sopra. Nello specifico l’opinione del Ministero richiama altresì la posizione della Corte di Giustizia che, con sentenza 10 settembre 2015, causa C-266/14, CGUE ha chiarito che “l’articolo 2, punto 1, della direttiva 2003/88 (…)) deve essere interpretato nel senso che, in circostanze nelle quali i lavoratori non hanno un luogo di lavoro fisso o abituale, costituisce «orario di lavoro», ai sensi di tale disposizione, anche il tempo di spostamento che tali lavoratori impiegano per raggiungere i luoghi in cui si trovano i clienti indicati dal loro datore di lavoro. Secondo la Corte non costituisce orario di lavoro – ai sensi della direttiva 2003/88 – esclusivamente il periodo durante il quale i lavoratori dispongono della “possibilità (…) di gestire il loro tempo in modo libero e di dedicarsi ai loro interessi” (…). Infatti, a parere della stessa Corte, la direttiva 2003/88 non prevede categorie intermedie tra i periodi di lavoro e di riposo e le relative prescrizioni in materia di durata massima dell’orario di lavoro e di periodi minimi di riposo costituiscono prescrizioni minime necessarie per garantire la tutela della salute e sicurezza, ai sensi del diritto dell’Unione europea”.
La Direzione Generale dei rapporti di lavoro e delle relazioni industriali ha dunque ritenuto che “Anche il caso del tempo impiegato dal lavoratore per indossare la divisa o i dispositivi di protezione individuale sul luogo di lavoro risulta quindi inquadrabile nell’ipotesi delineata dalla Corte di Giustizia, in quanto nel periodo considerato il lavoratore è giuridicamente obbligato ad eseguire le istruzioni del proprio datore di lavoro, senza poter gestire liberamente il proprio tempo”.
La posizione della recente giurisprudenza e del contratto collettivo delle cooperative sociali
Di recente, la Cassazione civile, con ordinanza 16 maggio 2024, n. 13639, ha stabilito che non risulta prevista retribuzione per la vestizione e svestizione quando il lavoratore non è eterodiretto (mancanza di obblighi di vestizione in loco), nei fatti confermando la propria pozione.
Nel caso di specie vi era, peraltro, anche la tematica dei DPI i quali risultavano eventuali, ovvero il loro utilizzo era rimesso a talune lavorazioni a effettuarsi post ingresso in azienda.
La Corte, riguardo l’ordinanza in discussione, prende atto che “tutti i lavoratori dell’azienda non avevano e non hanno l’obbligo di indossare gli abiti da lavoro negli appositi spogliatoi ubicati all’interno dei locali aziendali” e per questo: “i dipendenti dell’azienda in questione sono liberi di indossare capi di vestiario personali, non sussistendo alcun obbligo imposto da parte dell’azienda di indossare gli indumenti da lavoro forniti e di portare a casa gli indumenti da lavoro per lavarli presso la propria abitazione, a dimostrazione del fatto che non vi è alcun obbligo per i dipendenti di tenere e di lavare gli indumenti da lavoro in azienda”.
La Corte, con riferimento ai DPI specifici (come, ad esempio, i guanti da lavoro e in nitrile, gli occhiali, le visiere di protezione, le mascherine per le polveri e le cuffie antirumore) utilizzati esclusivamente in caso di necessità e conservati in armadietti di reparto, assegnati a ciascun lavoratore, afferma che “il problema circa l’asserita mancanza di retribuibilità non si pone, dal momento che ad essi si accede solo dopo aver timbrato il cartellino, durante l’orario di lavoro“.
Ma la contrattazione collettiva? Vi sono degli esempi di disciplina di tale fenomeno?
Il recente contratto collettivo delle cooperative sociali sottoscritto in data 26 gennaio 2024, all’articolo 85, rubricato “abiti da lavoro”, ci consegna una disciplina dell’istituto discutibile. Vediamolo nella sua interezza.
Primo comma: “L’impresa è tenuta a fornire alla lavoratrice e al lavoratore 2 abiti da lavoro all’anno, quando necessario, il cui costo è a carico dell’impresa, con reintegro previa riconsegna del vecchio abito inutilizzabile per normale usura. È parimenti a carico del datore di lavoro il lavaggio dell’abito da lavoro ove sussista un rischio di carattere biologico”. Quindi, nei fatti, il lavaggio delle divise è ammissibile in ambiente domestico se non vi è rischio biologico.
Secondo comma “A partire dalla data di sottoscrizione del presente CCNL per i lavoratori individuati al comma 1 il tempo di vestizione e svestizione riconosciuto come orario di lavoro è di complessivi 15 minuti. Le operazioni di vestizione e svestizione dovranno svolgersi all’interno o all’esterno dell’orario o del turno di lavoro, anche nei servizi dove è necessaria la continuità assistenziale”.
Chiaro, semplice, facile. Anche se:
– Il campo di applicazione è rimesso ai lavoratori di cui al punto 1. Se dunque la cooperativa consegnasse delle divise che non possono essere “compromesse” da rischio biologico, tali lavoratori sono esclusi dal campo di applicazione di detta norma;
– 15 minuti al giorno sono tanti? O pochi? Insomma, non sono effettivi. Bisognerebbe effettuare una valutazione sostanziale al fine di capire un tempo medio possibile;
– Sembra che la contrattazione non voglia considerare la presenza dell’eterodirezione. O, quantomeno, che la stessa (elemento fondante la tematica in trattazione) non venga citata. In ogni caso, sarà la reale organizzazione della realtà a stabilire se vi sia la tematica del tempo di vestizione o meno;
Quantomeno la previsione del contratto collettivo ci impone di non sottovalutare il problema del tempo “tuta”. L’articolo apre poi al dialogo sindacale (già avvenuto in alcune regioni). Speriamo solo che si riesca a concepire una previsione che valorizzi la singola realtà aziendale che potrebbe, giustamente, imporre dei tempi di vestizione “contenuti”.
D’altronde è orario di lavoro, no?
Fonte: Quotidianopiù