L’inoppugnabilità della conciliazione in sede sindacale. L’approfondimento

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L’inoppugnabilità della conciliazione in sede sindacale. L’approfondimento

Un’alternativa al ricorso giudiziario: la strada della conciliazione. Il ricorso al giudice del lavoro, al fine di risolvere una controversia sorta tra datore di lavoro e lavoratore, consente alle parti di ottenere una sentenza di un organo terzo, imparziale e indipendente. Contemporaneamente, però, lo svolgimento di un processo può essere notevolmente costoso, non solo in termini economici, ma anche in termini di tempo: prima di giungere ad una decisione definitiva, infatti, possono passare mesi, se non anni. A fronte di questa situazione, sempre più spesso le parti cercano di prevenire la nascita di un contenzioso giudiziale e di seguire la via della conciliazione, stipulando verbali di conciliazione che abbiano ad oggetto le possibili future pretese dei firmatari. Anche la soluzione conciliativa, però, presenta dei rischi: in particolare, le parti potrebbero impugnare il verbale sottoscritto. Ai sensi dell’art. 2113, comma primo, c.c., infatti “Le rinunce e le transazioni che hanno per oggetto diritti del prestatore di lavoro derivanti da disposizioni inderogabili della legge e dei contratti o accordi collettivi concernenti i rapporti di cui all’art. 409, Codice di procedura civile, non sono valide”. La rinuncia è un atto unilaterale recettizio con cui un soggetto manifesta la volontà di dismettere diritti soggettivi; la transazione, invece, è un contratto tipico “(..) col quale le parti, facendosi reciproche concessioni, pongono fine a una lite già incominciata o prevengono una lite che può sorgere tra loro” (art. 1965 c.c.). Le reciproche concessioni di cui parla la norma sono un elemento costitutivo del contratto di transazione: ciascuna delle parti, dunque, deve rinunciare a qualcosa. L’oggetto delle rinunce e delle transazioni in esame è certo ed è costituito dai “diritti del prestatore di lavoro derivanti da disposizioni inderogabili della legge e dei contratti o accordi collettivi” (art. 2113, comma primo, c.c.).

Per evitare l’eventuale impugnazione delle rinunce e delle transazioni e rendere la conciliazione, per così dire, “valida ab origine” o “tombale”, il datore di lavoro e il lavoratore possono stipulare il verbale di conciliazione in una delle c.d. “sedi protette” di cui all’art. 2113, comma quarto, c.c., ovvero:

• in sede giudiziale (art. 185 c.p.c.); • in sede amministrativa (artt. 410 e 411 c.p.c.);

• in sede sindacale (art. 412-ter c.p.c.);

• innanzi al collegio di conciliazione e arbitrato (art. 412-quater c.p.c.);

• presso le sedi di certificazione (art. 31, comma tredicesimo, legge n. 183/2010). In tutti i casi indicati la posizione del lavoratore è tutelata dall’intervento di un soggetto terzo, che garantisce l’assenza di un condizionamento della volontà del medesimo lavoratore. Ci si potrebbe domandare se effettivamente la sottoscrizione di un verbale di conciliazione in sede protetta ne garantisca sempre l’inoppugnabilità: come si avrà modo di vedere in seguito, la risposta non è sempre affermativa. Ci si soffermerà, in particolare, sulle conciliazioni intervenute in sede sindacale.

La conciliazione in sede sindacale ex art. 412-ter Ai sensi dell’art. 412-ter c.p.c. (rubricato “Altre modalità di conciliazione e arbitrato previste dalla contrattazione collettiva”), “La conciliazione e l’arbitrato delle materie di cui all’articolo 409, possono essere svolti altresì presso le sedi e con le modalità previste dai contratti collettivi sottoscritti dalle associazioni sindacali maggiormente rappresentative”. In primo luogo, dunque, l’operatore del diritto dovrà verificare se il Ccnl applicabile preveda una disciplina specifica relativa alle conciliazioni in sede sindacale e delle procedure che le parti sono tenute a seguire: in caso di risposta affermativa, la conciliazione potrà essere effettuata solo in quella sede e secondo le modalità indicate dal Ccnl. Qualora le parti non rispettino le disposizioni del contratto collettivo, il verbale potrà essere impugnato, con conseguente dichiarazione di invalidità. A titolo esemplificativo, l’art. 39 del Ccnl Commercio prevede che siano competenti in via esclusiva per la composizione delle controversie le commissioni paritetiche territoriali di conciliazione, costituite presso l’ente bilaterale del terziario. Secondo l’Ispettorato Nazionale del lavoro, nell’ipotesi di conciliazione in sede sindacale ai sensi dell’art. 412-ter c.p.c., ai fini della validità del successivo verbale, “si rende necessaria la verifica dell’effettiva sottoscrizione da parte dell’associazione sindacale del contratto collettivo della categoria in esame nonché la verifica del grado di rappresentatività del soggetto sindacale che (…) pur non potendosi concretare in un mero riscontro formale del rispetto delle procedure previste, potrà tuttavia essere effettuata mediante l’apposizione sul verbale di un’espressa dichiarazione del soggetto sindacale di conformità al requisito di cui all’art. 412-ter c.p.c.” (Nota INL 17 maggio 2018, n. 163). Si tratta, dunque, di un’autodichiarazione del soggetto sindacale in ordine al possesso del requisito della maggiore rappresentatività.

La conciliazione sindacale nel silenzio del contratto collettivo Non sempre, però, i contratti collettivi indicano la sede e le modalità con cui deve essere eseguita la conciliazione sindacale: in questi casi, dunque, ci si potrebbe domandare come debba avvenire la suddetta conciliazione. In via preliminare è opportuno ricordare che la legge non dà alcuna indicazione al riguardo: a fronte del silenzio del legislatore, la giurisprudenza nel corso degli anni ha stabilito alcuni principi da seguire ai fini di un corretto svolgimento della conciliazione in sede sindacale e della conseguente validità del verbale. In linea di massima, secondo i giudici di merito e di legittimità, la conciliazione potrebbe avvenire anche solo in presenza di un sindacalista: in ogni caso, però, devono essere rispettate alcune condizioni. In primo luogo, è importante che il soggetto sindacale con funzioni di conciliatore appartenga ad un’organizzazione sindacale genuina. Non è necessario, invece, che il sindacalista appartenga ad un’organizzazione sindacale maggiormente (o comparativamente più) rappresentativa sul piano nazionale, ben potendo egli far parte di un’organizzazione sindacale diffusa a livello locale. La funzione dell’organizzazione sindacale in un simile contesto, infatti, non è quella di manifestare la propria forza contrattuale, ma di assistere il lavoratore nella sottoscrizione del verbale. In secondo luogo, poi, è di fondamentale importanza che l’assistenza del rappresentante sindacale sia effettiva: un’assistenza, per così dire, apparente e fittizia comporterebbe l’invalidità della procedura conciliativa e del relativo verbale. Secondo i giudici di legittimità, infatti, affinché la conciliazione sia valida, è necessario che “(…) l’assistenza prestata dai rappresentanti sindacali sia stata effettiva , così da porre il lavoratore in condizione di sapere a quale diritto rinunci e in quale misura, nonché, nel caso di transazione, a condizione che dall’atto stesso si evincano la questione controversa oggetto della lite e le reciproche concessioni in cui si risolve il contratto transattivo ai sensi dell’articolo 1965, Codice civile” (cfr., ex multis, Cass. ord. 1° aprile 2019, n. 9006). A titolo esemplificativo, dunque, sarebbe sicuramente “attaccabile” il verbale sottoscritto alla presenza di un sindacalista chiamato dal datore di lavoro all’ultimo momento, senza avere alcuna conoscenza della vicenda.

Da quanto sin qui detto, sembra che la giurisprudenza, seppur nel rispetto di alcune fondamentali condizioni, ammetta la validità di un verbale sottoscritto alla presenza di un sindacalista in azienda, anche quando il Ccnl non preveda una specifica sede o delle precise modalità di svolgimento della conciliazione. A tale proposito, però, è importante ricordare una recente sentenza del Tribunale di Roma (8 maggio 2019, n. 4354), che ha dato un’interpretazione piuttosto restrittiva all’art. 2113, comma quarto, c.c. Il caso oggetto della decisione del Tribunale riguarda proprio l’ipotesi di una conciliazione sindacale avvenuta nella sala riunioni di un’azienda alla presenza di un consulente del lavoro e di un rappresentante sindacale. Nella sentenza, da un lato, è ribadito un principio giurisprudenziale ormai consolidato, secondo il quale l’assistenza prestata da un sindacalista al lavoratore deve essere effettiva; dall’altro lato, invece, viene espresso un principio del tutto innovativo (e, in qualche modo, “destabilizzante”). In particolare, secondo il giudice di merito, “il regime di inoppugnabilità concerne le sole conciliazioni sindacali espletate nelle sedi protette di cui all’ultimo comma dell’art. 2113, che richiama specificamente l’art. 412-ter e dunque le sole conciliazioni sindacali che avvengono presso le sedi e con le modalità previste dai contratti collettivi sottoscritti dalle associazioni sindacali maggiormente rappresentative”: in mancanza di una specifica disposizione del contratto collettivo relativa alla conciliazione sindacale, dunque, una simile conciliazione non sarebbe possibile. Secondo il Tribunale di Roma, infatti, l’art. 412- ter ha la funzione di assicurare la pienezza della tutela del lavoratore, dal momento che la conciliazione sindacale incide sui suoi diritti inderogabili: l’assenza di una specifica disciplina collettiva concernente le sedi e le procedure da seguire nell’ambito di una procedura sindacale non garantisce una simile tutela e, pertanto, l’eventuale verbale sottoscritto dalle parti sarebbe impugnabile. Pare evidente, agli occhi del giudice di merito, che “(…) l’art. 2113 ultimo comma c.c. nel rinviare espressamente all’art. 412-ter (oltre che agli art. 185, 401, 412-quater) intende attribuire soltanto ed esclusivamente a questo tipo di conciliazioni la prerogativa della non impugnabilità”. Pur trattandosi di una decisione isolata, una simile interpretazione, qualora accolta anche dai giudici di legittimità, potrebbe essere molto pericolosa per le aziende, per le quali non sarebbe più conveniente sottoscrivere validamente verbali di conciliazione presso la loro sede alla presenza di un sindacalista.

Impugnazione per vizi del consenso Infine, pur essendo sottoscritto in sede sindacale, il verbale di conciliazione potrebbe essere impugnato dal lavoratore (nel termine di prescrizione di cinque anni) per un vizio del consenso (errore, violenza, dolo). A titolo esemplificativo, la Corte di Cassazione ha ritenuto sussistente il dolo omissivo dell’azienda/datore di lavoro nella seguente ipotesi: un lavoratore veniva licenziato all’esito della procedura prevista per i licenziamenti collettivi e a seguito della sottoscrizione in sede sindacale di un verbale che indicava espressamente la soppressione del posto della funzione del dipendente; poco tempo dopo, la società assumeva un altro lavoratore per le medesime mansioni di quello licenziato. I giudici di legittimità hanno sottolineato che “il silenzio serbato da una delle parti in ordine a situazioni di interesse della controparte e la reticenza, qualora l’inerzia della parte si inserisca in un complesso comportamento adeguatamente preordinato, con malizia o astuzia, a realizzare l’inganno perseguito, determinando l’errore del lavoratore, integrano gli estremi del dolo omissivo rilevante ai sensi dell’art. 1439 c.c.” (Cass. 30 marzo 2017, n. 8260).

Osservazioni conclusive Da quanto sin qui esposto, si può osservare che lo svolgimento di una conciliazione in sede sindacale (e, dunque, “protetta”) non sempre rende “inattaccabile” il verbale sottoscritto. Ai fini di evitare l’impugnazione (e la conseguente invalidità) del suddetto verbale, devono essere rispettate le condizioni, talvolta piuttosto stringenti, elaborate dalla giurisprudenza, ovvero:

• qualora il Ccnl preveda specifiche sedi o modalità di svolgimento della conciliazione, queste devono essere seguite dalle parti; • l’assistenza prestata dalle organizzazioni sindacali durante la conciliazione deve essere effettiva;

• il consenso del lavoratore non deve essere viziato da errore, violenza, dolo.

La conciliazione in sede sindacale, dunque, potrebbe comportare il rischio di impugnazione del verbale se si tiene conto anche del recente arresto giurisprudenziale del Tribunale di Roma, che, qualora venga seguito dai giudici di legittimità, potrebbe precludere alle aziende la possibilità di svolgere la conciliazione nella propria sede alla presenza di un sindacalista. Da un certo punto di vista, dunque, per i datori di lavoro che vogliano evitare tale rischio di impugnazione potrebbe – e ribadiamo potrebbe – essere più “conveniente” seguire altre vie anche se con un iter meno rapido. In primo luogo, essi potrebbero sottoscrivere il verbale di conciliazione in sede amministrativa, ovvero innanzi alle apposite commissioni istituite presso l’Ispettorato Territoriale del Lavoro, ai sensi degli artt. 410 e 411 c.p.c.: in questo caso, infatti, nonostante i tempi possano essere più lunghi rispetto a quelli di una conciliazione in sede sindacale, il rispetto della procedura prevista ex lege consente alle parti di avere una maggiore sicurezza circa l’inoppugnabilità del verbale. In secondo luogo, poi, le parti potrebbero giungere a una conciliazione dinanzi alle commissioni di certificazione: ai sensi dell’art. 31, comma tredicesimo, legge n. 183/2010 (c.d. “Collegato lavoro”), infatti, “Presso le sedi di certificazione di cui all’art. 76, Decreto legislativo 10 settembre 2003, n. 276, e successive modificazioni, può altresì essere esperito il tentativo di conciliazione di cui all’articolo 410, Codice di procedura civile”. Le sedi di certificazione, dunque, sono quelle indicate dall’art. 76, D.Lgs. n. 276/2003, ovvero, per sintesi, gli enti bilaterali, gli Ispettorati territoriali del lavoro, le province, le università pubbliche e private, il Ministero del lavoro e delle politiche sociali e i consigli provinciali dei consulenti del lavoro. Si ricorda, in particolare, che le commissioni di certificazione in sede universitaria hanno competenza su tutto il territorio nazionale.

[estratto da Ipsoa, Diritto&Pratica del lavoro, num. Nov. 2019]