Il lavoro a termine costa di più all’azienda. E il costo aumenta ancora di più ogni volta che, a un primo rapporto a termine, ne segua un secondo, un terzo e così via (con lo stesso lavoratore). Il «di più» è dato dal cosiddetto contributo addizionale: in misura base è pari all’1,4%, ma sale di uno 0,5% in occasione di ogni «rinnovo» del contratto a termine. Sul primo contratto, pertanto, il contributo addizionale è dell’1,4%; dopo il primo rinnovo è dell’1,9% (contributo 1,4% più maggiorazione dello 0,5%); dopo il secondo rinnovo è del 2,4% (contributo 1,4% più due maggiorazioni dello 0,5%, per un totale dell’1%); e così via. Con circolare n. 121/2019, l’Inps ha dato il via libera al versamento della maggiorazione dello 0,5% sui rinnovi dei contratti a termine dal 14 luglio 2018. In caso di assunzione/conversione a tempo indeterminato del lavoratore a termine, l’azienda ottiene il rimborso del contributo addizionale e dell’eventuale maggiorazione. Decreto Dignità. La maggiorazione contributiva è stata introdotta dal dl n. 87/2018 (c.d. decreto Dignità, in vigore dal 14 luglio 2018), convertito dalla legge n. 96/2018, che ha riformato la disciplina del contratto a termine. Fino al 13 luglio 2018, si ricorda, il contratto a termine è stato stipulabile, liberamente, fino a una durata massima di 36 mesi. Dal 14 luglio 2018, con l’entrata in vigore del decreto Dignità, la libertà di assunzione è stata ridotta a 12 mesi: oltre, e comunque fi no a 24 mesi (pena la conversione del rapporto a tempo indeterminato), serve la presenza di una causale tra quelle individuate dalla legge (si veda la tabella in pagina).
La causale occorre anche per la proroga di rapporto a termine in corso che faccia superare la durata complessiva di 12 mesi; oppure se si procede al rinnovo del rapporto a termine (cioè a un nuovo contratto, sempre a termine, qualunque sia la durata). Per stabilire se ricorre l’obbligo di causale, attenzione, si tiene conto della durata di tutti i rapporti a termine tra lo stesso datore di lavoro e lo stesso lavoratore, considerando sia quelli conclusi, sia quello che s’intende prorogare. Per esempio, se s’intende prorogare di sei mesi un rapporto di dieci mesi, occorre la causale anche se la proroga interviene quando il rapporto di lavoro non ha ancora superato i 12 mesi (serve, però, perché complessivamente la durata supererà i 12 mesi). Sale il costo del lavoro a termine. Nella logica che il lavoro «non stabile» debba costare di più, la riforma Fornero ha introdotto un contributo addizionale, a carico del datore di lavoro, pari all’1,4% da versare sui contratti a termine. In particolare, con effetto sui periodi contributivi maturati a decorrere dal 1° gennaio 2013, l’art. 2, comma 28, della legge n. 92/2012, ha introdotto tale contributo addizionale che è dovuto dai datori di lavoro con riferimento ai «rapporti di lavoro subordinato non a tempo indeterminato» (cioè a termine).
Il contributo addizionale ha colpito indistintamente tutti i rapporti (fatta eccezione per i casi di seguito indicati) in essere al 1° gennaio 2013 e non solo quelli instaurati dal 2013; mentre è stato escluso con riferimento alle seguenti categorie di soggetti: • lavoratori assunti con contratto a termine in sostituzione di lavoratori assenti; • lavoratori assunti a termine per svolgere attività stagionali; • lavoratori assunti come apprendisti; • lavoratori assunti a termine dalle pubbliche amministrazioni. L’addizionale 2018 (dopo il decreto Dignità, dal 14 lugli-o). Ai sensi dell’art. 3, comma 2, del decreto Dignità (dl n. 87/2018), a partire dal 14 luglio 2018 (data di entrata in vigore del decreto legge), il contributo addizionale a carico del datore di lavoro (come detto pari all’1,4%) è incrementato dello 0,5% in occasione di ciascun rinnovo del contratto a termine, anche se avviene con contratto di somministrazione. Il rincaro ha un effetto moltiplicativo così che l’incremento dello 0,5 deve essere applicato in occasione di ogni rinnovo del contratto a termine. Pertanto, dopo il primo rinnovo, la misura del contributo addizionale sale all’1,9%; questa rappresenta la base cui aggiungere nuovamente l’incremento dello 0,5% in caso di un ulteriore rinnovo del contratto a termine; e così via (cioè il criterio di calcolo deve essere utilizzato per eventuali rinnovi successivi, avuto riguardo all’ultimo valore base che si è venuto a determinare per effetto delle maggiorazioni applicate in occasione di precedenti rinnovi). La maggiorazione dello 0,5% non si applica, invece, in caso di proroga del contratto, perché il decreto Dignità ha previsto espressamente l’applicazione solo in occasione del rinnovo. Sono esclusi dall’aggravio i contratti di lavoro domestico (colf, badanti ecc.).
La restituzione dell’addizionale. L’art. 2, comma 30, della legge n. 92/2012 disciplina i casi di restituzione, nel limite massimo di 6 mensilità, del contributo addizionale. Poiché la norma fa riferimento a tutto il «contributo addizionale» (alla misura ordinaria e, quindi, anche a quella «maggiorata» in caso di rinnovi), la restituzione dovrebbe riguardare anche l’ulteriore contributo dello 0,5% (nel silenzio della circolare n. 17/2018 del ministero del lavoro, si attendevano le indicazioni da parte dell’Inps). L’Inps si è espresso ed ha precisato che il rimborso riguarda anche l’eventuale maggiorazione versata, ma solo limitatamente all’ultimo rinnovo del contratto a termine. La restituzione, si ricorda, è finalizzata a incentivare le stabilizzazioni dei rapporti di lavoro in due ipotesi: a) qualora alla scadenza del contratto a termine trasformino questo rapporto in un contratto a tempo indeterminato; b) qualora, entro sei mesi dalla scadenza del contratto a termine, riassumano il lavoratore già a termine con un contratto a tempo indeterminato. In tal caso, però, opererà una riduzione corrispondente ai mesi che intercorrono tra la scadenza e la stabilizzazione (perciò è stato previsto il termine di sei mesi, cioè pari al numero massimo di mesi rimborsabili). In altre parole, la restituzione piena (sei mensilità) ricorrerà solamente nei casi di trasformazione (entro la scadenza) del contratto da tempo determinato a tempo indeterminato, nonché nell’ipotesi di stabilizzazione intervenuta il mese successivo a quello di scadenza del contratto a termine. Solo sui rinnovi.
La maggiorazione, la cui misura è 0,5%, si applica in occasione di ogni «rinnovo» del contratto a termine anche in regime di somministrazione. Il «rinnovo» ricorre quando l’iniziale contratto a termine giunge all’originaria scadenza (anche se successivamente prorogata) e sottoscrive un ulteriore contratto a termine. Sul punto, l’Inps precisa che il «rinnovo», almeno ai fini della maggiorazione, ricorre anche quando l’impresa e il lavoratore hanno prima avuto un rapporto a termine e poi procedono a un rapporto di somministrazione (e viceversa). Da settembre. A partire dall’Uniemens del corrente mese di settembre (invio entro il 31 ottobre), i datori di lavoro devono valorizzare importi e informazioni relative ai lavoratori a termine per i quali è dovuta la maggiorazione contributiva, anche per il periodo compreso tra il 14 luglio 2018 e il mese di agosto 2019 (arretrati). Le aziende sospese o cessate devono utilizzare la procedura di «regolarizzazione», versando la maggiorazione contributiva entro il 16 dicembre.